Interventi all'Assemblea

 

Relazione di don Giancarlo Taverna Patron

Antonio Rosmini:
la cultura del suo tempo, la cultura del nostro tempo

1. Dall’alba al tramonto

Scartabellando nelle prime, pionieristiche annate del nostro “Charitas”, ormai quasi ottantenne, si trova una precisa storia della “Società degli Amici”: «Nella tumultuosa sua attività di studio, aveva il Rosmini [giovane], alla vista degli immensi mali operati nella società civile dalle false filosofie e dalle scienze umane indirizzate contro la Chiesa di Cristo, concepito il più ardito disegno. la compilazione di un’Enciclopedia cristiana da opporre alla famosissima Enciclopedia francese di Diderot e D’Alembert. A prezzo di sacrifici … si era provvisto di un magnifico esemplare dell’edizione veneta di tale enciclopedia, immensa macchina di guerra contro la cattolica verità. 1237 volumi in folio, legati in pelle, erano là, allineati nelle sue librerie sotto la voce Enciclopedia … Li aveva sempre sott’occhi nella sua sala di studio. Sentiva fremiti d’un santo sdegno ogni volta che sopra di essi cadeva lo sguardo. Di qui il proposito, appena credibile in un giovane ventenne o poco più, di fare altrettanto, e meglio, in difesa della verità. Ne tracciò un disegno che ci rimane, di una grandiosità e unità imponente … Alla grande impresa occorrevano energie profonde ed agili. Intorno al Rosmini c’erano. La Società degli Amici le avrebbe in quadrate e dirette …»[1]

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È l’alba della vita del nostro Fondatore, e la direzione della sua missione già è delineata in questo progetto, il cui fine è indicato da lui nel capo primo degli “Statuti”: «Rendere tutti gli uomini amatori della religione cattolica, e desiderosi di promuoverla per mezzo di essa stessa Società». «Secondo questo progetto la Società … avrebbe dovuto essere una vera e propria organizzazione di forze … a servizio della religione … Era un apostolato specialmente per laici: un’Azione Cattolica, come si poteva concepire nel primo ottocento. L’azione dei soci si eserciterebbe in modo amichevole e disinteressato sugli individui e sugli enti morali già esistenti, come la Chiesa, gli Ordini religiosi, lo Stato e i corpi politici minori, le Accademie, le Società private con scopi speciali, ecc. … L’influsso della Società sarebbe come un lievito benefico nella vita contemporanea, …»[2].

Se il progetto in quanto tale ebbe poco successo e scarsa durata (il Diario della Carità inizia alla data 27 settembre 1819 con queste poche righe: «Feci il progetto della Società degli Amici rivolta alla difesa della religione cattolica e mi associai a tal fine con Sebastiano De Apollonia sacerdote, e Giuseppe Bartolomeo Stoffella. Questa società non ebbe effetto»[3]), lo scopo che attraverso di esso si voleva perseguire accompagnò il nostro Padre per tutta la vita, grazie anche all’autorevole conferma ricevuta dai papi del suo tempo, la cui voce, secondo quanto avrebbe poi scritto nelle Costituzioni dell’Istituto della Carità, è segno chiaro di una chiamata divina:

4    già Pio VII, saputo che il giovane sacerdote che aveva accompagnato a Roma il patriarca di Venezia, Ladislao Pyrcher, si interessava di filosofia, lo incoraggiò a continuare a farlo (è in questa occasione, pare, che il Padre Fondatore ricevette in dono dal papa la tabacchiera di tartaruga, con la miniatura dello stesso pontefice, che si trova ancor oggi a Stresa);

4     nel 1828 Rosmini tornò a Roma, dove all’inizio dell’anno seguente Leone XII moriva e veniva eletto il cardinal Castiglioni, Pio VIII: «In sul bel principio dell’anno seguente Pio VIII assunto al trono pontificio dissipava da me tutti i timori, non tanto della difficoltà dell’impresa, quanto dell’incertezza, se quel tempo e quelle forze che avrei dovuto spendervi, non potessero per avventura essere impiegate a maggior vantaggio del prossimo in altre occupazioni. Ricordo ancora le sue amorevoli ed autorevoli parole, le quali presso a poco furono queste: “È volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere de’ libri: tale è la vostra vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero” …»[4];

4     anni dopo, l’amico Gregorio XVI, per testimonianza dello stesso Rosmini, «durante il suo Pontificato non mancò giammai di raffermarmi nello stesso proposito, d’aiutarmi a compirlo con ogni dimostrazione di paterna benevolenza e di costante protezione»[5].

Quando, nel 1850, ormai vicino al tramonto della sua vita, Rosmini compone il discorso Degli studi dell’Autore (col quale introduce la collezione delle Opere edite e inedite dell’Abate Rosmini Serbati, roveretano), egli afferma che dovere di uno scrittore è «aprire il fine a cui tendono le loro scritture ponendo sott’occhio lo spirito e il disegno di quel corpo di dottrine o d’investigazioni, colle quali bramano di comunicare intellettualmente co’ loro simili»[6]. Egli ha cercato di farlo sempre, in ciascuna delle sue opere, ma ora è tempo di dichiarare ancora più chiaramente il fine generale di tutta la sua opera, i mezzi impiegati per raggiungerlo e il risultato di tutta la sua ricerca: «E per dare un qualche ordine al discorso, prima indicheremo quei fini speciali, a cui rivolgemmo i nostri studi; di poi additeremo la via tenuta per raggiungerli; e finalmente delineeremo, benché troppo imperfettamente, quell’immagine di sapienza, che stimiamo dover presiedere a tutte le meditazioni, non meno che a tutte le operazioni degli uomini»[7].

Volendo accennare qualcosa di quanto il Padre Fondatore ha fatto per annunciare la Verità con la “v” maiuscola agli uomini del suo tempo e alla loro cultura, vorrei dare un’occhiata al perché (la necessità e il fine di tutti i suoi scritti e di tutte la sue opere, prima fra tutte la fondazione dell’Istituto) e ai mezzi utilizzati per raggiungerlo.

2. Il perché

Per combattere l’errore

L’errore è apparenza del vero e apparenza del bene. Esso è stato sempre e variamente combattuto, con tanta più efficacia dopo che nel mondo è apparsa la Verità in persona, Gesù e il suo vangelo.

In realtà si è già data risposta a tutto. Ma i suoi contemporanei non si mettono ad indagare le fonti della verità: «Ma uno studio solido e tollerante in questo mollissimo secolo è raro pur troppo, e la superbia delle cose materiali e superficiali sdegna la fatica delle spirituali e profonde: leggonsi i libri d’una giornata, si spregiano quelli de’ secoli. Onde la presente generazione, come vecchia rimbambita, sembra nuova e disarmata contro quelle fallacie … Il che dimostra la necessità di compilare in nuovi libri e con più trita esposizione quelle stesse verità elementari, senza le quali la vera vita dell’uomo perisce … Il quale è uno de’ fini, a cui intendono le opere che si danno in questa raccolta»[8].

Errore e verità compiono un cammino quasi parallelo, nella storia dell’uomo, e ad epoche in cui prevalgono le oscurità seguono altre in cui torna a splendere la luce del vero. Nel XVIII secolo «i sofisti … occuparono il regno dell’opinione», producendo «goffi errori nella sfera delle cose religiose, in quella della morale, in quella della politica, in quella dell’umana socievolezza, in tutte le questioni più gravi e più importanti alla salute ed alla vita dell’uomo nel tempo e nella eternità»[9]. In linguaggio odierno, come suonerebbe tale affermazione? Forse così: vari essenziali errori inquinano la trama e l’ordito del nostro vivere, pensare, agire … La cultura è inquinata: non totalmente velenosa, ma da purificare, da rievangelizzare. Sciacquare i panni sporchi nelle acque chiare dell’Arno evangelico.

Rosmini ha tentato di militare con i talenti personali ricevuti nell’esercito della verità evangelica.

Per ridurre le verità a sistema

Ma ogni errore, alla fin fine, nel progetto provvidenziale, segna un sacco di auto-goal, finendo per rendere un involontario servizio alla causa della verità. Gli sbagli, soprattutto quando si ripetono in forme nuove, spingono a sempre nuovi approfondimenti che li dimostrino tali. Un errore è una verità dimagrita, o troppo ingrassata, o impazzita: bisogna guarirla, non ucciderla … E perché la lotta contro l’errore sia efficace è necessarissimo raccogliere le verità a fattor comune, ridurle a sistema. Ecco «quell’intento, a cui dicevamo avere indirizzate, qualunque siano, le nostre fatiche, cioè a raccogliere … quella dottrina che è, o che credemmo essere, il sistema della verità … Il sapere umano, in quanto si dispone ed ordina scientificamente, può essere rappresentato da una piramide a forma di tetraedro: la base sterminatamente grande è formata … da veri particolari, i quali sono innumerevoli; sopra di questi corre un’altra serie … e se così di mano in mano si ascende agli strati o scaglioni superiori, ciascheduno di essi si trova a contenere un minor numero di veri, ma di una potenzialità od universalità sempre maggiore, fino a che, pervenuti alla sommità, il numero stesso è scomparso nella unità, e la potenza dell’universalità è divenuta massima ed infinita nell’ultimo tetraedro che forma la cima della piramide»[10].

Una filosofia vera …

Pur avendo fatto qualche indagine anche negli “strati” inferiori, Rosmini ha quasi sempre lavorato sulla cuspide della piramide, per restaurarne il supremo pinnacolo, o perno, dalla cui solidità dipende quella dell’intero edificio del sapere: «Ora il determinare i principi ossia le prime ragioni di tutto il sapere … è appunto l’ufficio della filosofia. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l’attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri vari scritti»[11].

… solida base per la teologia

Ma ancora non bastava. Il Padre fondatore sa che il Vangelo è il sole intramontabile di ogni cultura umana. Ma la fede richiede una base sana, che la supporti e non le crei difficoltà: «… la stessa Chiesa cattolica invita ed eccita i filosofi … a prestar quest’ufficio co’ loro studi, che la rivelata dottrina non può esporsi compiutamente … senza supporre le verità dimostrate dal filosofico ragionamento, giacché la religione non distrugge ma perfeziono la natura, la divina rivelazione non abolisce ma completa e sublima la ragione, e però la natura e la ragione sono i due postulati, o siano le due condizioni e prenozioni del vangelo …»[12].

Come avrebbe gioito il Padre fondatore leggendo il solenne e chiarissimo esordio della Fides et Ratio: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità». Due ali che in Rosmini diventano due rami di uno stesso albero: «È dunque desiderabile, che si volga il pensiero a ricomporre e ristabilire un sistema di Filosofia, il quale vero e sano e sufficientemente compiuto, possa essere dalla scienza teologica ricevuto per suo ausiliare, e questi due rami del sapere si ricongiungano in quella unità alla quale sono nati, e nella quale reciprocamente si giovano, fiorendo entrambi a vantaggio dell’uman genere»[13].

E come abbiamo gioito noi nel leggere, nella stessa enciclica, che tra i «grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne l’affiancamento ai maestri della filosofia antica»[14], sulla scia di Gregorio Nazianzeno, Agostino, Anselmo, Bonaventura e Tommaso, fosse annoverato anche Antonio Rosmini!

3. Il come

Nel “Discorso” che stiamo seguendo, Rosmini prosegue scrivendo che non intende parlare di tutti gli strumenti messi in atto per avvicinarsi almeno all’altissimo fine che si era prefisso, ma far cenno di due (presumibilmente i caratteri irrinunciabili e fondamentali del suo metodo di lavoro), «cioè della libertà colla quale ho osato filosofare, e della conciliazione che ho procurato di fare, per tutto dove mi fu possibile, delle altrui sentenze»[15].

“Libertà di pensare …”

Nella sua attività riflessiva l’uomo deve essere libero. E tutti sono naturalmente d’accordo! Ma Rosmini: «Libertà dunque è una di queste parole equivoche indeterminate, polisenne, e il mondo che freme e schiuma per essa, come un mare combattuto da’ contrari venti, n’è testimonio. E il senso più astratto che s’applica a quella parola è il più assurdo di tutti: perché alcuni ripongano il concetto dell’uomo libero in questo, che egli non abbia più alcun legame di soggezione, e però si propongono di liberar l’uomo non meno dal giogo della verità che da quello dell’errore, e di formar così il libero pensatore … L’uomo che non è sottomesso alla verità, necessariamente è sottomesso all’errore … L’uomo dunque è sempre servo, se così si vuole: a tutte e due quelle opposte servitù non può sottrarsi: egli può solamente scegliere fra quella che il rende servo della verità e della giustizia, e l’altra che il rende servo dell’errore e dell’immoralità»[16].

“… e conciliazione delle sentenze”

In che ottica porsi di fronte all’infinità dei frammenti di vero e di bene sparsi in ogni uomo, in ogni popolo, in ogni cultura ? Nessun compromesso fra la verità e l’errore, ma l’unica verità può essere espressa in una pluralità di forme: «Fra i sistemi veri … la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell’ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de’ falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare … Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie. forme di cui ella si veste, dai vari modi di concepirla … Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse … l’unità bellissima del vero, molteplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo …»[17].

Libertà a dialogo con tutti, ma mai compromesso con il falso oggettivo, con il male oggettivo. Dire che due più due fa tre è un errore, ma è anche una verità parziale: fa anche tre …, manca un pezzo …

4. Nella sua e nella nostra cultura

Maria Adelaide Raschini, grande rosminista scomparsa alcuni anni fa, ha scritto nel ‘97 un saggio intitolato “Antonio Rosmini e l’evangelizzazione della cultura”. Ci sono momenti storici che presuppongono «un clima che, se pure tutt’altro che sgombro dalle acrimonie della storia, testimoniano la vivacità di un tessuto sociale cristiano …». Invece ce ne sono altri, come il nostro, in cui «la stessa ipotesi di una cultura quale ‘oggetto’ di evangelizzazione nasce dalla constatazione di un tessuto sociale non ancora o non più cristiano … Oggi non siamo in attesa di ondate barbariche … ma di fronte alla ricaduta nella barbarie delle “nazioni cristiane”»[18]. Rosmini ha diagnosticato gli errori del suo tempo, con le conseguenze che durano tutt’oggi. Ecco il punto: dicendo “cultura del suo e del nostro tempo” non intendiamo due mondi separati, ma madre e figlia, nonna e nipote, senza soluzione di continuità, ma con uno sviluppo che dal rinascimento e dall’illuminismo era prevedibile da pochi. Assolutizzare il finito, di qualunque genere, è l’essenza dell’idolatria (consumismo, prevalere delle sensazioni sulle idee …): è pagano pretendere leggi, gusti, consuetudini che scendano a livello delle nostre debolezze; è cristiano guardare alle leggi perenni (divina e naturale), riconoscerle come tali, e adeguare ad essere la propria vita. Rosmini ha attuato il più formidabile tentativo di evangelizzazione della cultura nel mondo contemporaneo, proponendo la strada dell’armonia fra la ragione e la fede.

Il nostro tempo, la nostra cultura, non ha radicalmente cambiato la cultura del primo ottocento: è andata verso conseguenze sempre più mastodontiche degli stessi principi. Oggi, come scriveva Rosmini, non si può più dormire; lo scriveva nel 1852 a don Antonio Bellasio di Sartirana, quando nel parlamento piemontese si discuteva una legge sul matrimonio che metteva in pericolo (già allora) la sacralità di tale impegno.

Con la nostra cultura, Rosmini si troverebbe ad avere un da fare ben maggiore di quello che ebbe nella sua epoca, ma le linee rimarrebbero quelle:

4     conoscere bene l’essenza della verità naturale e soprannaturale. Si dice che le idee non contano, contano i fatti: Rosmini direbbe che i fatti buoni scaturiscono soltanto da menti abitate dalla verità, e tocca a noi attualizzare ed espandere il suo “sistema della verità”;

4     conoscere bene il nostro mondo, e le radici da cui provengono i suoi frutti buoni e cattivi;

4     intraprendere una “pacifica guerra”, con le armi della chiarezza e del dialogo: andare lontano, a ripescare chi sta facendo naufragio lontano dalle spiagge della verità e del bene;

4     collaborare con tutti i “buoni”.

5. Conclusione

Il “Corriere della sera” di venerdì 27 settembre 2003 dava giusta eco al tentativo di una sfortunatissima madre francese, Marie Humbert, di assecondare la supplica di suo figlio, Vincent, rimasto terribilmente menomato in un incidente stradale occorsogli nel settembre del 2000, che lo aveva reso cieco, muto, tetraplegico. Due anni dopo aveva scritto al presidente Chirac: «Mi chiamo Vincent Humbert, ho 21 anni, il 24 settembre 2000 sono rimasto vittima di un incidente stradale. Sono rimasto nove mesi in coma. Tutti i miei sensi sono stati colpiti, a parte l’udito e l’intelligenza. Voi avete il diritto di grazia e, io, vi chiedo il diritto di morire. Desidero questo naturalmente per me stesso ma soprattutto per mia madre, che ha abbandonato tutto della sua vita precedente per restare accanto a me... Sappiate che ero un cittadino che non dava problemi, sportivo, volontario fra i pompieri. Non merito un destino così atroce …». Vincent ha scritto un libro intitolato “Je vous demande le droit de mourir”: «Che cosa scegliereste al posto mio? Voglio morire … Non ne posso più, questa non è la mia vita. Qualcuno sarà triste quando saprà che non sono più in vita, ma si sbaglierà: sono talmente felice di andarmene. Mamma, poiché tu mi ami, sarai tu ad uccidermi. Devi farlo per me. Non giudicatela, ciò che ha fatto è la più bella prova d’amore. E lasciatele vivere in pace quest’ombra di vita che le resta». Un dramma umano infinito, che come sempre spacca l’opinione pubblica in due. Ma esiste, nel senso inteso dal povero Vincent, il diritto di morire? E una pietà che lo concedesse, si potrebbe ancora definire tale? Che cosa gli direbbe Colui che è al contempo la Misericordia essenziale, e la Verità unica? Se ieri un problema come questo non si poneva, oggi esso fa tremare la pace delle nostre coscienze …

È un esempio, drammatico, di idee che serpeggiano nella nostra cultura “sub specie boni” (con l’apparenza di essere buone): non si sono ancora imposte, ma stanno sviluppandosi a vista d’occhio (in Svizzera il suicidio assistito è già approvato dalla legge). E che dire della caduta di valori come la perpetuità degli impegni sacri (la consacrazione per sempre, il matrimonio indissolubile, ecc.)? Ci si chiede di contribuire alla seminagione, o riseminagione, dei germi della verità evangelica nel campo dell’umano. Siamo qui per dare una risposta rosminiana a questo appello della Chiesa.

1.Charitas”, 1931, p. 42

2. Pagani - Rossi, La vita di Antonio Rosmini, I, p. 178.

3. Rosmini A., Scritti autobiografici inediti, p. 297.

4. Rosmini A., Introduzione alla filosofia, p. 30-31.

5. Ivi.

6. Ivi, p. 13.

7. Ivi, p. 14.

8. Ivi, p. 16.

9. Ivi, p. 18-19.

10. Ivi, p. 25-26.

11. Ivi, p. 28.

12. Ivi,p. 40-41.

13. Ivi, p. 43.

14. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica “Fides et Ratio”, n. 74, Roma 14 settembre 1998: «La conferma della fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda personale di grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne l'affiancamento ai maestri della filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità».

15. Rosmini A., Introduzione alla filosofia, p. 44.

16. Ivi, p. 54

17. Ivi, p. 103

18. Ivi, p. 36-39



 

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